martedì 8 maggio 2012

Della colpa e del perdono


Durante il suo pellegrinaggio alla Mecca, un sant’uomo cominciò a sentire la presenza di Dio al suo fianco. In trance, si inginocchiò, nascose il viso e pregò:
   “Signore, voglio chiedere solo una cosa nella mia vita: che io abbia la grazia di non offenderTi mai.”
   “Non posso concedere questa grazia” rispose l’Onnipotente. 
   Sorpreso, l’uomo volle sapere il motivo del rifiuto. 
   “Se tu non mi offenderai, io non avrò motivi per perdonarti” udì il Signore che diceva. “Se io non avrò bisogno di perdonarti, ben presto tu dimenticherai l’importanza della misericordia verso gli altri. Perciò, prosegui il tuo cammino con Amore, e lasciami praticare il perdono di tanto in tanto, affinché anche tu non dimentichi questa virtù.”
   La storia illustra bene i nostri problemi con la colpa e il perdono. Da bambini, sentivamo sempre nostra madre che diceva: “Mio figlio ha fatto quella stupidaggine perché gli amici lo hanno influenzato. Lui è una persona molto buona”. 
   E in questo modo, non ci siamo mai assunti la responsabilità dei nostri gesti, non abbiamo chiesto perdono – e abbiamo finito per dimenticare che dobbiamo essere generosi anche quando l’altro ci offende. L’atto di chiedere perdono non ha niente a che vedere con il senso di colpa o la vigliaccheria: tutti noi commettiamo errori, e sono proprio questi passi falsi che ci permettono di migliorare e progredire. Se, invece, siamo troppo tolleranti con i nostri atteggiamenti – soprattutto quando essi finiscono per ferire qualcuno – alla fine siamo isolati, incapaci di correggere il nostro cammino. 
   Come allontanare la colpa, ma nello stesso tempo avere la capacità di chiedere perdono per un errore? 
   Non esistono formule. Ma esiste il buon senso: dobbiamo giudicare il risultato delle nostre azioni, e non le intenzioni che avevamo nel compierle. In fondo, tutti sono buoni, ma questo non interessa e non cura le ferite che possiamo causare. Una bella storia illustra ciò che voglio dire: 
   Quando era piccolo, Cosroes aveva un insegnante che era riuscito a fare in modo che si distinguesse in tutte le materie che studiava. Un pomeriggio, il maestro – apparentemente senza motivo – lo castigò con grande severità. 
   Anni dopo, Cosroes salì al trono. Uno dei suoi primi provvedimenti fu di mandare a chiamare il maestro della sua infanzia e chiedergli spiegazione dell’ingiustizia che aveva commesso.
   “Perché mi castigaste senza che io lo meritassi?” domandò. 
   “Quando vidi la tua intelligenza, seppi subito che avresti ereditato il trono di tuo padre”, rispose l’antico insegnante. “E decisi di mostrarti come l’ingiustizia sia capace di segnare un uomo per il resto della vita. 
   “Poiché ora sai ciò che questo significa”, continuò il maestro, “spero che tu non castighi mai qualcuno senza motivo”.
   Questo mi fa pensare a una conversazione che ho avuto durante una cena a Kyoto. Il professore coreano Tae-Chang Kim commentava le differenze fra il pensiero occidentale e quello orientale. 
   “Entrambe le civiltà hanno una regola d’oro. In Occidente voi dite: farò per il mio prossimo quello che vorrei fare per me. Questo significa che colui che ama, stabilisce un modello di felicità, che tenta di imporre a tutti coloro che si avvicinano. 
   “La regola d’oro dell’Oriente sembra quasi uguale: non farò al mio prossimo quello che non desidero che esso faccia a me. Ma quest’ultima parte dalla comprensione di tutto ciò che ci rende infelici, anche il fatto di dover obbedire al modello di felicità imposto dagli altri – e la differenza sta tutta qua. 
   “ Per migliorare il mondo, noi non imponiamo una maniera per dimostrare il nostro amore, ma, piuttosto, per evitare la sofferenza altrui”.
   Quindi, rispetto e cautela nel confrontarci con il nostro fratello. Ha detto Gesú: “E’ dai frutti che si conosce l’albero”. Dice un vecchio proverbio arabo: “ Dio giudica l’albero dai suoi frutti, e non dalle sue radici”. E dice un vecchio proverbio popolare: “Chi picchia dimentica, chi le busca non dimentica mai”.